Fabrizio Ricci | Tra inchiesta e romanzo
“Questi, più che politici, sono maestri nel gioco delle tre carte…” Andrea Camilleri
“Se la colpa e di chi muore” è un libro da leggere dalla prima all‘ultima riga. Il suo autore, Fabrizio Ricci, è un personaggio da conoscere e da ascoltare, sia per la sua esperienza nel mondo del lavoro (la sua giovane età non inganni… ndr), sia per ciò che ha da raccontare sui dettagli della tragedia della Umbria Olii.
Basterebbe questo per introdurre e descrivere la portata di un lavoro, di un’inchiesta puntigliosa tracciata all’interno di un quadro indefinito, dove poteri e potenti, spesso, disegnano un universo nel quale i lavoratori diventano numeri senz’anima, cifre di battaglia, vittime di guerra. Eppure, quando abbiamo sentito parlare Fabrizio sul palco del Teatro Pavone, quando Valerio Mastandrea leggeva alcune pagine del suo libro, la percezione di una passione vera ci ha portato a chiedere un incontro, a voler conoscere meglio cos’è che spinge un giovane giornalista a tessere le trame di un racconto così particolare che, al di là del fatto tragico in sé, porta inevitabilmente a stabilire un contatto diretto con la sofferenza e la domanda di giustizia delle vittime “vive”, ovvero i familiari dei lavoratori deceduti sabato 25 Novembre 2006.
Incontriamo Fabrizio Ricci in un bar di Perugia, all’ora di pranzo di un giorno di inizio Marzo. Sono passati 39 mesi dall’esplosione di Campello sul Clitunno. La prima cosa che chiediamo a Fabrizio è: cosa sta succedendo nelle aule del tribunale di Spoleto?
«Il processo è entrato nel vivo, a partire dalla testimonianza di Klaudio Demiri, l’unico sopravvissuto dopo l’esplosione».
Cosa ha detto nella sua ricostruzione dei fatti?
«Demiri ha ribadito quello che è il fulcro dell’accusa nei confronti di Del Papa, ovvero che agli operai della ditta Manili non era stato vietato l’uso della saldatrice, ovvero di quello che è l’elemento che ha innescato sia l’esplosione che le polemiche che sono seguite al fatto».
È questo quindi il nodo cruciale del processo?
«Soprattutto è la questione su cui si basa la controffensiva di Giorgio Del Papa, che ha chiesto 35 milioni di risarcimento ai lavoratori deceduti a Campello nel 2006, quindi alle loro famiglie».
Sono stati sentiti anche alcuni lavoratori della Umbria Olii…
«Sì, e dalle testimonianze degli stessi dipendenti (ed ex dipendenti) della Umbra Olii, che si sono schierati in maniera molto forte dalla parte del loro datore di lavoro, sono emerse alcune contraddizioni, in quanto sembra che tutti sapevano della presenza di gas esano nei silos, ma non tutti sapessero che l’esano è altamente esplosivo».
Che tempi pensi siano necessari per una sentenza?
«Non è facile dirlo. Siamo nel vivo, i testimoni saranno molti, anche se sul processo incombe la tagliola del cosiddetto processo breve, ovvero: se entro due anni non si conclude il primo grado di giudizio, per l’imputato accusato di omicidio colposo potrebbe scattare la prescrizione. Tuttavia le udienze si stanno susseguendo senza sosta, il giudice sembra intenzionato a procedere a grandi passi, e questo, dopo così tanto tempo, è un fatto molto positivo».
Facciamo un passo indietro: raccontaci quando e come hai saputo dell’incidente di Campello sul Clitunno.
«Al tempo lavoravo per il Giornale dell’Umbria. Purtroppo gli incidenti sul lavoro sono frequenti, ma quattro morti rappresentano un bilancio tragico che non ha precedenti nella storia recente della nostra regione. Per cui la redazione, me compreso, si mise subito al lavoro sul fatto del giorno».
Tanto lavoro e tanto impegno per un’opera come la tua. Una ricostruzione che ha richiesto qualche sacrificio e qualcosa di più del dovere di cronaca. È così?
«Scrivere è sempre stata una mia grande passione, per cui non si può parlare di sacrificio. Di certo è che ci ho messo i sabati e le domeniche. Considerando poi che qualche mese fa è nata una bellissima bimba, di tempo libero ne è restato davvero poco… “Se la colpa è di chi muore” è principalmente un racconto. Per far sì che il lettore si avvicini a fatti di questo tipo, è necessario rendere il libro leggibile e coinvolgente, pur restando sempre attinenti alla cronaca».
Leggendo abbiamo avuto l’impressione che il primo ad essere coinvolto sia stato tu. Non è semplice restare freddi cronisti in situazioni di questo genere…
«Ritengo che in questa storia sia quasi impossibile, non dico non schierarsi, ma non farsi un’idea precisa di quale parte prendere. È evidente che c’è un abisso tra chi ha perso la vita, tra chi ha perso un familiare, e chi ha avuto la pretesa di chiedere un risarcimento di 35 milioni di euro a gente che di certo non possiede capitali di nessun tipo, che, in alcuni casi, vive in situazioni economiche disagiate. Ho cercato sempre di raccontare i fatti in maniera oggettiva, basandomi sugli atti del processo, sulle testimonianze dirette e sul grande lavoro svolto dai miei colleghi giornalisti nazionali e locali, ma personalmente non posso che augurarmi che presto sia fatta giustizia».
Al Pavone, dopo la lettura di Valerio Mastandrea, hai parlato di 1300 morti all’anno sul lavoro in Italia. Sono cifre spaventose che dovrebbero far riflettere…
«Non solo riflettere. Dovrebbero far capire che c’è qualcosa di sbagliato, soprattutto nel momento in cui si cerca sempre di assolvere dalle responsabilità manager aziendali e datori di lavoro».
La tua professione è quella di responsabile dell’ufficio stampa della CGIL Umbra. Cosa sta succedendo ai lavoratori italiani? Perché scendono in piazza gli extracomunitari, ad esempio, e gli italiani non fanno sentire forte la loro voce in un momento così difficile?
«Lo sciopero dei lavoratori extracomunitari è un avvenimento importante, che viene dopo i drammatici fatti di Rosarno. È inutile negare che c’è un problema grandissimo, un ritorno di istinti nefasti e comportamenti inquietanti che credevamo non appartenessero più alla civiltà italiana. I lavoratori immigrati non possono essere lasciati soli, c’è bisogno di un risveglio di quella che è una coscienza collettiva. Devo dire, a onor del vero, che qui a Perugia, durante la manifestazione, al fianco dei lavoratori stranieri c’erano molti italiani».
Come è stato possibile, nel tempo, “annichilire” la coscienza del diritto di chi lavora, dopo anni di battaglie e di diritti acquisiti?
«Questo è un tema di una strategicità enorme… Credo che l’individualismo e la paura siano le chiavi di lettura del percorso a ritroso degli ultimi anni, e credo anche che tutto ciò sia passato attraverso un regresso culturale che parte dal mondo televisivo e arriva ai luoghi di aggregazione quotidiani, in primis la famiglia. È stata un’operazione condotta al fine di convincere le persone che il nemico è chi sta peggio di noi, un modo di instillare nelle teste delle persone paure e dubbi, nel contesto di una precarietà dilagante che è divenuta maggioritaria. Attualmente questo è, nel mondo del lavoro e quindi in quello sindacale, il problema dei problemi».
Raccontaci qualcosa in più di te e delle tue passioni.
«Scrivere è una grande passione. La mia speranza in futuro è quella di riuscire a pubblicare un romanzo. Con la consapevolezza, ovviamente, che non è per niente facile scrivere qualcosa che possa piacere…»
Se scrivi così bene sei certamente un grande lettore. I tuoi preferiti?
«Tra i grandi dico Hemingway e Pavese. Fra contemporanei invece metto Camilleri, Carlotto e Wu Ming. Di recente poi, sono rimasto letteralmente affascinato dalla trilogia Millenium di Stieg Larsson».
E la musica?
«Da giovanissimo il RAP, insieme al reggae e al blues. E poi un grande amore per la musica di Fabrizio De André, al quale devo, tra le altre cose, il mio nome».
Che altro?
«Se parliamo di cose frivole, sono un grande appassionato di videogiochi, oltre ad avere la “sciagura” di tifare per il Perugia…».
La parte più importante di tutte: la famiglia. Ci hai parlato di una bimba che “occupa” i tuoi pensieri…
«Vero! Anita ha 9 mesi, è arrivata quando il lavoro del libro era a metà. Oltre ad essere il centro della mia attuale esistenza, è una meraviglia, come sua mamma Sara, d’altronde…»
In conclusione: credi che in Italia ci sia spazio per il ritorno dell’indignazione, quella vera e sincera?
«Io voglio sperarlo, per noi e per il futuro dei nostri figli. Temo però che questo ritorno auspicato, non sia all’orizzonte».
Se la colpa è di chi muore è un racconto/inchiesta sulla tragedia dell’Umbria Olii, dove ai quattro lavoratori rimasti uccisi dall’esplosione di un silos è stato chiesto un risarcimento di 35 milioni di euro. Il libro di Ricci riporta allo stesso tempo una testimonianza preziosa e una verità scomoda: gli incidenti sul lavoro non sono una tragica fatalità, ma la diretta conseguenza di una legislazione sulla sicurezza carente e inadeguata. Con la prefazione di Beppe Giulietti, Deputato, portavoce dell’associazione giornalistica Articolo 21.
Fabrizio Ricci è nato a Perugia nel 1978: giornalista professionista, ha lavorato per tre anni come redattore al “Giornale dell’Umbria”. Dal 2007 è responsabile dell’ufficio stampa regionale della CGIL Umbria, dal 2009 collabora con Rassegna.it. Questi i suoi lavori editoriali prima dell’uscita di Se la colpa è di chi muore (Castelvecchi Tazebao, 2009): Le città di Perugia (Era Nuova, 2005) e La Perugina è storia nostra (Ediesse, 2007).