José Marcelo Ferreira è per tutti, per i tifosi, per i compagni, per gli avversari, per il Calcio, Zé Maria.
Per noi è l’immagine del calciatore ottimale, l’atleta che corre come un mezzofondista e calcia come un fuoriclasse. Oggi il ragazzo di Oeiras è un “Maestro”.
La scuola calcio della “PGS Don Bosco” di Perugia non solo porta il suo nome…
«Il nome conta fino a un certo punto – ci racconta Zé Maria, appena scese le scalette che portano al campo di gioco – quello che conta è seguire davvero la crescita di questi ragazzi, e parlo di progressi tecnico-calcistici, ma soprattutto di crescita umana, in particolar modo per quanto riguarda la socializzazione e la vita all’interno di un gruppo o di una società».
Uno dei migliori esterni passati per la nostra serie A, straordinariamente intelligente in tutte le fasi della gara, instancabile cursore di fascia: di Zé Maria calciatore sappiamo tutto, come della sua carriera vissuta tra Italia, Spagna e Brasile, comprese 46 presenze e 2 reti nella Seleçao. Ha chiuso con il calcio giocato ancora giovane, anche a causa di qualche infortunio e dei tanti chilometri macinati in campo senza mai risparmiarsi. Mentre lo ascoltiamo, seduti vicino al campo di gioco in erba sintetica del “Don Bosco”, avvertiamo la sensazione di avere a che fare con una persona straordinariamente serena.
«Ho giocato e vissuto a Perugia per cinque anni, anche quando ero a Valencia e Milano avevo casa qui e tornavo ogni volta che potevo».
Quindi quello con la nostra città è un amore ricambiato?
«Direi proprio di sì. Mi sono sempre trovato bene qui, sono stato trattato quasi come un figlio e ormai mi sento perugino, una delle prime cose che ho imparato è vivere la rivalità con i ternani (ride, ndr), quindi…»
Dopo una carriera importante come la tua, come nasce l’idea di una scuola calcio?
«Ho avuto molte proposte per iniziare questo percorso, sia in Brasile che in Italia. Devo essere sincero, non credevo a questo tipo di iniziative, anche perché io stesso sono un giocatore cresciuto “per strada”. Se ho fatto questa scelta è perché credo fortemente in questo progetto che mi vede impegnato tutti i giorni. Come dice il nome, questa deve essere una scuola a tutti gli effetti, non un luogo dove parcheggiare i ragazzi per un paio di ore. Qui si insegna, sia io che i miei collaboratori insegniamo a calciare e correre, ma anche a comportarsi e relazionarsi in un gruppo».
La nostra generazione (quelli nati sul finire degli anni ’60 e inizio ’70, ndr) è cresciuta divertendosi in campo, ma anche a contatto con educatori e allenatori che insegnavano tutto, da come calciare a cosa mangiare a come allacciarsi le scarpe. Cosa vedi di differente nel rapporto con i giovani di adesso?
«Le differenze sono moltissime soprattutto nell’atteggiamento dei genitori».
Sei d’accordo con chi sostiene, come Mourinho, che i giovani calciatori pensano solo “alle donne e alle Ferrari”?
«Di certo Mourinho è una delle persone più intelligenti che vivono nel mondo del calcio, magari le sue dichiarazioni calzano per alcuni calciatori. Quello che è certo, è che i giovani di oggi difficilmente crescono giocando in mezzo alla strada come succedeva a noi. Il tempo ha cambiato le cose, ed è giusto che sia così; la cosa che non mi sento di condividere invece, è l’atteggiamento iperprotettivo che i genitori hanno verso i figli. Il calcio non è quello che si pratica in casa con la playstation, e se un genitore mi viene a dire che il figlio non può allenarsi perché piove, forse è il caso di fermarsi e riflettere un attimo su cosa significa essere genitori e crescere un figlio, soprattutto in un contesto sportivo».
Qual è stata la tua più grande soddisfazione da calciatore?
«Difficile segnalarne solo una… La soddisfazione di indossare la maglia della nazionale brasiliana è stata senz’altro grandissima; ma anche aver vinto un campionato italiano, o l’Intertoto con il Perugia, che a livello europeo non aveva mai vinto niente…»
A proposito di Perugia, qual è il ricordo più bello che porti con te?
«Molti ricordi e molte soddisfazioni, soprattutto il piacere di essermi divertito indossando la maglia del grifo. Ho vissuto cinque anni bellissimi e sono orgoglioso di aver fatto parte di una squadra che divertiva il pubblico e metteva in difficoltà tutti gli avversari. Tranne la Lazio di Eriksson: non so perché, ma ogni volta che affrontavamo loro, eravamo noi ad andare in seria difficoltà! In particolare nei quattro anni con Cosmi devo dire che ci siamo divertiti molto».
Credi che nel calcio, il divertimento sia la chiave del successo?
«Il divertimento, che è strettamente legato alla creazione di un gruppo vincente. Non si può ovviamente essere tutti amici, però si deve andare d’accordo o quantomeno trovarsi bene nel tempo che si trascorre a contatto con chi fa parte del tuo stesso gruppo».
Del gruppo fanno parte anche allenatore e presidente: puoi raccontarci qualche aneddoto del tuo rapporto con Gaucci?
«Abbiamo discusso spesso con Gaucci, ma devo dire che mi ha sempre trattato con rispetto, a volte come un figlio, e si era creato un bel rapporto umano… Certo che quando ci mandava in ritiro mi incazzavo tantissimo! Ricordo che una volta vincemmo una partita in casa giocando male e ci mandò in ritiro a Castrovillari, perché poi dovevamo giocare con la Salernitana. Ovviamente perdemmo e quindi altra settimana di ritiro; poi pareggiammo con il Piacenza e alla fine ci mandò a casa, secondo me più per disperazione che altro…»
E il tuo rapporto con Serse Cosmi invece…?
«Tuttora buono, abbiamo avuto discussioni e ci siamo sempre confrontati apertamente, ma credo che questo debba essere il rapporto che intercorre fra un allenatore e i giocatori più rappresentativi della squadra».
Fra gli allenatori che hai avuto ce n’è uno che ti ha dato qualcosa di più degli altri?
«Ho cercato di apprendere un po’ da tutti gli allenatori che ho avuto…»
Che ci dici dello stage che ha portato i ragazzi della “Don Bosco” ad Appiano Gentile per prendere contatto con il settore giovanile dell’Inter?
«Penso sia importante prendere contatto con certe realtà. I ragazzi hanno potuto vedere come funziona una società seria, quale deve essere il rapporto che si instaura con l’allenatore, come ci si comporta dal momento che si varca il cancello dell’accademia, partendo dal rispetto degli orari fino al contatto col pallone che avviene non prima che il mister lo decida. La nostra scuola calcio è nata il 2 settembre di quest’anno, sta compiendo i primi passi, e credo che se si vuole crescere insieme e bene sia necessario seguire gli esempi positivi che vengono dall’alto».
Cosa ti chiedono i ragazzi quando sei in campo con loro?
«A volte come calciare, come tirare una punizione o come saltare l’uomo, ma non è questo ciò che più conta: vedere che ascoltano e seguono gli esempi positivi è la più grande soddisfazione».
Chi è il nuovo Zé Maria? Ti rivedi in qualche giocatore attuale?
«Non voglio dire che è il nuovo Zé Maria, ma attualmente il giocatore tecnicamente più forte nel mio ruolo è senza dubbio Dani Alves».
E per il tuo futuro? Che progetti hai?
«Ho fatto il corso a Coverciano, per cui sono in attesa di una panchina. Entrare nel circuito non è facile, sto aspettando la giusta occasione, credo di avere la capacità per farlo… Un mio amico dice sempre “Le opportunità sono come una donna bionda sopra un cavallo bianco: se non la prendi al momento giusto, può essere che poi devi correrle dietro, e magari dietro è calva e non riesci ad afferrarla…”»
Bella metafora. Allora visto che sei stato così sincero con noi, dobbiamo confessare che la redazione di fil rouge è di forte fede bianconera e tu negli scorsi anni ci hai fatto sempre soffrire: te lo diciamo solo ora, perché temevamo che sapendolo non ci avresti concesso l’intervista…
«Guarda, io sono molto credente e dico che Dio è così buono che ha perdonato anche gli juventini…»
Amen!