Tributo a Fabrizio De Andrè
Perdere la Cometa
Più di vent’anni fa comprai una cassetta a buon prezzo in un negozio di dischi. Mi venne l’urgenza di questa spesa perché la notte, la mia radio sempre accesa lasciava il segno e una canzone dal ritornello colmo di giochi di parole, fisarmonica e stornelli da osteria, martellava la mia fantasia. Una strofa diceva: “A te che fosti la più contesa, la cortigiana che non si dà a tutti, ed ora all’angolo di quella chiesa, offri le immagini ai belli ed ai brutti, lascio le note di questa canzone, canto il dolore della tua illusione, a te che sei per tirare avanti, costretta a vendere Cristo e i Santi”. Cinquantasei parole. Scriviamo. Con l’inchiostro o con i tasti diamo vita e sostanza ai nostri sogni, ai nostri pensieri fuggiaschi e disordinati. In fondo tentiamo solo di colorare fogli bianchi, come bambini che non conoscono ancora la geometria delle figure e impugnano i pastelli come un punteruolo per incidere sulla carta la propria meraviglia. Vorremmo raccontare, raccontarci, anche quando la storia non regge il palcoscenico e il pubblico non regalerà applausi e consensi. Le nostre storie sono uniche ed indimenticabili. Ma solo per noi stessi. Cinquantasei parole per raccontare una storia immensa, una storia qualunque. Ordinaria, come altre mille altre storie del passato. Eppure nella trama di quel tessuto l’elettricità statica scintilla come la fiaccola di Olimpia, accendendo a sua volta la fantasia di chi ascolta e resta intrappolato in quelle rime assolute. Come in un gioco di frattali, quella canzone può essere scomposta in tanti pezzi più piccoli, ognuno dei quali prende vita e raggiunge la parte più profonda del nostro sentire. Sette storie unite da un intervallo, da un filo conduttore, forse l’ottava storia, quella che dà senso d’insieme a tutte le altre. Geniale. “Il testamento” entrò nella catena del mio DNA. Ma io non ne conoscevo ancora il titolo. Era il 1988. Al tempo ascoltavo Radio Subasio fisso, un po’ come faccio adesso che mi inchiodo su una stazione e raramente cambio frequenza. La mie notti, da tre anni ormai, erano sempre piene della musica di cantautori italiani e stranieri, senza interruzioni pubblicitarie né voci che annunciavano titoli e autori. Si chiamava “Notte in compact”, e qualche volta la stessa canzone la potevi sentire sette-otto volte nel giro di due ore. Che fosse di Fabrizio De Andrè l’avevo capito. Il titolo però, era ancora un mistero. Nel negozio di dischi di cui parlavo – si chiamava “Il discobolo” – non potevo certo mettermi a fischiettare il motivetto o a cantare “quando la Morte mi chiederà”… A diciannove anni non si può andare incontro a certe figure meschine, già chiedere al commesso sarebbe stato un atto di sottomissione insopportabile… Da solo, atteggiandomi come chi sa ed è certo di sapere, trovai nello scaffale “cantautori italiani” una cassetta dai bordi arancio e i titoli bianchi su fondo azzurro (oggi ho trovato un sito internet in cui la chiamano “Antologia blu”). Fra le dodici canzoni trovai “Boccadirosa”, “La canzone di Marinella”, “Quello che non ho”… ma soprattutto ce n’era una che si intitolava “Il testamento di Tito”. Secondo la mia logica avevo trovato quello che stavo cercando, quel titolo era tutto ciò che mi serviva. Novemila lire bene spese. Come al solito non aspettai di tornare a casa; misi su la cassetta in macchina e ascoltai impaziente. Ma la canzone che martellava le mie notti insonni, non era lì dentro. A volte i grandi amori, quelli che vivono una vita intera e sopravvivono alle effimere esistenze degli esseri umani, nascono da un equivoco, da un malinteso, dalla casualità dell’esistenza stessa. A volte i grandi amori crescono spontaneamente come la gramigna e il bambù e non c’è verso di sradicarli. A volte i grandi amori pretendono attenzione e costanza e si nutrono del nostro tempo buono, dei nostri anni migliori. Questi ultimi, a volte ti ricompensano con il vuoto cosmico e un calcio in culo, a volte danno un senso alla tua vita, ti indicano la via da seguire come la scia luminosa lasciata da una cometa. Succede a chi è molto fortunato. Ma solo a volte. Ho cominciato a capire qualcosa di più andando avanti negli anni. Ascoltando, ascoltando e ancora ascoltando. Ho cominciato a non chiedere più alcun perché. Si inizia a comprendere quando sei ammesso a far parte di un mondo che non ti appartiene, quando quel mondo ti accetta dopo che hai bussato per tanto tanto tempo. Entri in punta dei piedi, ascolti chi sa, impari e allinei i tuoi circuiti mentali lungo le onde emanate dall’ambiente che ti ospita. Con il tempo non senti più la necessità di chiedere niente. Ti accorgi che non c’è niente da spiegare. Gli anni della mia gioventù li ho trascorsi con quella cassetta, e poi con i cd, e poi con la musica scaricata, e con i servizi e i filmati e i racconti della persone che, seppur di striscio, erano state illuminate dalla coda della cometa. Raccontano. Sono aneddoti che non dicono più di tanto. Eppure negli occhi di chi parla vedi una luce di certezza. Alcuni hanno condiviso con Fabrizio De Andrè l’esperienza di un concerto, altri una cena in compagnia. Altri ancora hanno composto canzoni insieme a lui, o album interi, e molti artisti che provano a cantare le sue canzoni si commuovono ascoltando la loro stessa voce che racconta quelle storie così uniche, ordinarie e speciali che Fabrizio scriveva e cantava. I miei aneddoti fanno parte della mia storia personale. Da quella cassetta mi innamorai di “Fiume Sand Creek”, ero ancora acerbo per capire il valore inestimabile e il significato profondo del testo de “Il testamento di Tito”. Capivo molto bene, invece, cosa vuol dire schierarsi dalla parte degli sconfitti, degli oppressi, dei deboli, di coloro che non hanno mai scritto i libri di storia. Della gente, insomma, che catturava il mio sguardo e i miei sentimenti migliori. Capivo già che la vita vera non è mostrare solo la nostra foto più bella, lo scatto migliore, quello dei giorni della felicità. Poi ci fu “Andrea”, “Via del campo”, “Il pescatore” e “La guerra di Piero”. “La canzone di Marinella” no. Per “entrare” davvero in quella storia ci volle un po’ di più, successe più tardi e fu diverso. Nel frattempo ho capito che il Caso e il suo anagramma, nella loro assoluta perfezione, avevano fatto in modo di farmi innamorare di un artista immenso e delle sue storie. Ho visto nascere e morire, ho ascoltato ancora e cercato di vivere secondo ciò che la mia coscienza mi suggeriva. Con un certo impegno ho anche capito qualcosa de “Il testamento di Tito” e finalmente ho trovato “Il testamento” in un album originale e molto costoso. L’ascolto spesso, anche di giorno.
“…è stato un graffio di luce sulla pelle scura della notte…”
C’è in tv lui che canta “Dolcenera”. Fabio Fazio va a Dublino e regala a Bono e Larry Mullen due album originali di Fabrizio De Andrè. La Premiata Forneria Marconi suona ad Assisi le sue canzoni. Morgan a Cagliari interpreta “Un giudice” tra l’entusiasmo del pubblico presente e il mio, seduto a casa mia. In una giornata di pioggia di fine estate ho voglia di mangiare messicano mentre ascolto “Le passanti”. Al teatro Pavone di Perugia danno di giovedì sera “FDA, sulla mia cattiva strada”. Faccio la mia prima compilation con le sue canzoni. Faccio la seconda. Mi rendo conto che non basta. “…dunde ne vegnì duve l’è ch’ané…“. Fra Berlino e Praga leggo in camper l’introduzione del triplo cd “In direzione ostinata e contraria” scritta da Aldo Grasso. Giro in macchina fra le colline umbre, una giornata intera e un solo cd: “Non al denaro, non all’amore né al cielo”. Fernanda Pivano racconta di Cesare Pavese e Spoon River. Nicola Piovani. Massimo Bubbola. Antonella Ruggero. “Ogni tre ami c’è una stella marina…”. Ivano Fossati. Luvi e Cristiano De Andrè. Vincenzo Mollica. Paolo Villaggio. Il maggio francese. Franco Battiato. Sardegna. Genova. Bob Dylan e Bruce Springsteen. Ricordi e speranze.
Dori Ghezzi.
Conosco un posto dove il tempo si è fermato e l’ordine degli eventi non esiste più. Non cerco più di capire. Mi siedo e ascolto. A volte imparo qualcosa, a volte mi accontento di dimenticare. Secondo me Fabrizio De Andrè è una Cometa. Di quelle che ne passa una ogni mille anni. Un giorno finiranno quelli che l’hanno conosciuto e quelli che hanno ascoltato le sue canzoni e le sue storie. Finiranno i libri, la memoria e le fotografie. Forse finirà questo pianeta con le sue bestialità. Spero che la musica, invece, possa essere salvata, tramandata agli alieni o ai prossimi organismi viventi o alle pietre o a chiunque ci sarà. Più conosco di quell’uomo, difetti smisurati compresi, e più lo ammiro.
Tributo a Fabrizio De Andrè
di losario (llosa@live.it) – disegni di Luca Marinangeli