INTERVISTA A DANIELE RIDOLFI | REVERIE
Persona: dal latino: [per] attraverso [sonar] risuonare. Così era chiamata in antichità la maschera indossata dagli attori. Quante maschere hai indossato nella tua vita con i personaggi che hai creato?
“È un discorso molto filosofico e profondo. Quando siamo bambini giochiamo con gli oggetti, dandogli un’anima per creare il nostro mondo. Si può giocare con una forchetta, così come con un pezzo di legno, in modo che quegli oggetti possano cambiare forma. La maschera ha la stessa attitudine, ma lo fa con noi. Penso che ogni cosa può essere una maschera. Ogni volta che “giochiamo a vivere”, anche se non siamo a teatro, mettiamo una maschera. Il vero segreto è farlo con leggerezza…”
Qual è il personaggio al quale sei più legato e quello che vorresti interpretare?
“Ho lavorato molti anni con la maschera di Pulcinella e, senza dubbio, ho stabilito un forte legame con il suo personaggio. Oppure è questa maschera che l’ha creato con me. È un po’ questo il dilemma, non si sa chi viene prima, come l’uovo o la gallina (ride, ndr). Il ruolo che vorrei interpretare? È il prossimo, ignoto, sconosciuto.”
Cosa c’è oltre la maschera… Chi è Daniele Ridolfi?
“Chi sono? Un uomo con grande spirito di immaginazione e divertimento. Cerco di trasformare quello che c’è intorno in qualcosa di visibile. In questa realtà anch’io sono visibile, sono un interprete, un filtro, un catalizzatore. Mi vedo come uno strumento utile per far passare le emozioni, per raccontare una storia. D’altronde noi esseri umani siamo un mix di forma e colore. Siamo porosi, poiché assorbiamo tutto ciò che troviamo. Ci contagiamo, ci contaminiamo. Poi sta a noi se dare o ricevere. Diciamo che a me piace farlo, ma con leggerezza.
Come è nata la passione per il teatro? Quand’è che hai capito che volevi trasformarlo in un lavoro?
“Inizio dalla fine perché non sono ancora del tutto convinto di voler trasformare questa passione in un lavoro (ride, ndr). Però, senza ombra di dubbio, stimo enormemente chi lo fa amatorialmente, mantenendo la propria vita, senza rinunciare a questa passione. D’altronde, quando si entra nel ramo lavorativo, spesso veniamo costretti a svolgere mansioni che non ci piacciono e, di conseguenza, quella passione diventa meno pura. Il desiderio più grande che ho, ovviamente, sarebbe quello di fare quello che mi pare ed essere pagato per questo… Ma credo che sia un po’ il sogno di tutti noi, no?. Tornando all’inizio, la mia passione è nata probabilmente ai tempi dell’infanzia, quando salivo sopra la tavola a casa dei nonni. Oppure a scuola, sopra un banco. Il motivo era sempre lo stesso: guardare le cose da un’altra prospettiva e mettersi in mostra. Facevo il pagliaccio e mi divertivo e poi, crescendo, ho scoperto che qualcuno mi ci pagava pure… Però non credo che ci si nasca, anche se in molti dicono così. Secondo me è l’ambiente che ti ci porta.”
A proposito di questo, il Palio de San Michele ha influito su questa scelta?
“Senza dubbio! D’altronde a Bastia Umbra non c’è tanto per esprimersi ed il Palio è l’unica cosa che somiglia veramente al teatro. Personalmente sono stato contaminato dal fascino delle sfilate che, ancora oggi, sono molto impattanti e lasciano un segno indelebile soprattutto sulla fantasia dei più piccoli. Lì è stata la prima volta che mi sono reso conto che esisteva un altro mondo, il più vicino a quello che avevo dentro.”
Qual è il fil rouge della tua carriera artistica?
“Enrique Vargas del Teatro de lo Sentidos sostiene che ognuno di noi ha molte perle, come fossero i nostri talenti. Però se non le colleghi ad un filo non nascerà mai una collana e rischi di disperdere tutto il valore che hai. C’è qualcuno che fa filotto e riesce a mettere in fila tutto quello che fa. Io, sinceramente, non conosco ancora il mio fil rouge, ma so che c’è. Sono alla ricerca di questa cosa che, tra l’altro, mi diverte molto.”
Tra le tue perle c’è senz’altro quella del mimo… Come l’hai trovata?
“Ci sono arrivato sbagliando e, come sempre, dagli errori nasce sempre qualcosa di importante. Inizialmente avevo dei pregiudizi a riguardo, pensavo fosse soltanto una cosa simpatica e carina, invece è una cosa molto potente! Ha lasciato il segno su di me e mi ha permesso di scoprire un’intelligenza del corpo altissima. C’è un collegamento tra cuore, cervello e corpo che è indissolubile. Già, quando il corpo entra in azione, il cervello trova istantaneamente l’equilibrio con ciò che noi chiamiamo cuore e tutto questo ci inebria fino a farci stare bene. Un po’ come lo sport. D’altronde il mimo ha molto in comune con lo sport, ma anche con tutto ciò che risuona con l’arte: con la scultura, con la pittura. Parla di gesto, che poi ritrovi nelle lezioni d’arte. Parla di teatro, perché sei davanti ad un pubblico. Parla di movimento, che poi diventa una coreografia. Nel suo silenzio, nell’azione, il mimo fa e parla con tutti. Nel suo fare, mostra delle cose che poi è il pubblico a scegliere. Il mimo da’ quest’opportunità: presenta, propone e provoca. Già, in questa parola c’è tutto. Il mimo è una provocazione e se viene recepita nasce una risata, senza dubbio un’emozione.”
Dove ti vedi da qui a 10 anni?
“Eh, sicuramente indaffarato con le proposte che dovrò rifiutare. Segretari personali, sold out ai vari cinema, teatri; con case, piscine e popolarità (ride, ndr). Scherzi a parte, non ne ho la più pallida idea. A me piace girare come una trottola ma, senza dubbio, tra 10 anni mi vedo più stabile e magari spero di essere emotivamente più tranquillo.”
DIREZIONE TEATRO… Cosa pensi di questo progetto?
“Direzione Teatro è un’iniziativa e, lo dice la parola stessa, è un qualcosa che inizia. Da quello che so è un mezzo che porta il pubblico a sensibilizzarsi nei confronti degli spettacoli o delle esibizioni dal vivo. Io penso che c’è tanta gente che ha voglia di fare e conoscere; che vuole vedere, sperimentare e toccare. Perciò, ogni iniziativa proposta è già buona di per sé, tuttavia ciò che conta è che prosegua nel tempo, che non finisca. Culturalmente parlando, Bastia Umbra è una città molto affine alle vicende sportive e, fortunatamente, quest’attività è molto simile. Spesso però la gente si vergogna anche ad essere spettatore, non si può negare. Però bisogna vincere questa paura ed andare oltre l’ostacolo del pregiudizio. “Non vado a vedere questo spettacolo perché dicono che sia brutto”: quante volte abbiamo sentito quest’affermazione? Secondo me il pubblico deve assistere sia alle cose belle che a quelle brutte, perché c’è sempre qualcosa da imparare. Quando nasce un’opera d’arte, che sia uno spettacolo, un quadro o una canzone, c’è un seme che si pianta dentro di noi. Tuttavia non si può pretendere che un albero cresca in un giorno. Per insediarsi dentro, quel seme dev’essere coltivato, protetto e poi colto. L’esempio più calzante che ha Bastia è appunto quello del Palio. Un’intera comunità l’ha tramandato di generazione in generazione ed ora si è radicato perfettamente nella cultura del territorio. Ora come ora le sfilate hanno raggiunto un livello artistico altissimo. Tra microfoni, luci, scene e attori, ogni volta vengono fuori dei veri e propri capolavori. Il pubblico lì è partecipe. Non va a vedere solo le sfilate del proprio rione, ma compra l’abbonamento per tutte. Ecco. Anche per il teatro dovrebbe essere così, bisogna cercare di riempirlo sempre per condividere…”
Parlaci di REVERIE, di cosa parla questo spettacolo?
“Ha un messaggio molto importante, che però non posso dire. Lo spettacolo REVERIE nasce da un’esigenza sconosciuta… Non abbiamo avuto un devising theatre (creazione del progetto teatrale, ndr), e l’abbiamo realizzato senza scrivere nulla, improvvisando le scene, cercando di tirar fuori quello che c’era dentro l’artista. Poi, quando l’artista è una tela bianca, l’inizio del dipinto appare molto confuso e tutto ciò prosegue fino a quando cambia forma e diventa un’immagine precisa.”
“REVERIE – gli fa eco Roberto Costantini – può sembrare una metafora dell’attuale società ma, essendo uno spettacolo di teatro fisico, non può essere descritto con le parole.”
“Parla di un sacco di cose che il pensiero razionale non può spiegare bene – prosegue Daniele Ridolfi – Sa mettere in luce comportamenti umani nascosti, che però esistono. Diciamo che sa rendere visibile l’invisibile. Non solo la parte esterna e divertente, ma anche quella interna delle persone. La maggior parte di esse non riesce ad andare oltre, non è capace di vedere quello che c’è dentro l’individuo. Io cerco di farlo venire fuori: lo mostro.”
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