Recensione
iWonder e Cosamia2.0 di Fabritia D’Intino: gli spettatori protagonisti di un esperimento in danza
Cercatela e andate a vedere i suoi spettacoli, perché lei è lo spettacolo e la reazione a lei è puramente soggettiva. Si tratta di Fabritia D’Intino che, venerdì sera, ha accolto i suoi spettatori nella bella sala Fontemaggiore di Sant’Andrea delle Fratte a Perugia. Due le tracce dello spettacolo, fra teatro e danza, prodotto con la compagnia internazionale Déjà Donné: iWonder (online live experiment) e Cosa mia 2.0.
È una serata decisamente nebbiosa e già da fuori il luogo dello spettacolo è avvolto da un sapore di non-noto, come anche lascia molto all’immaginazione personale il flyer che viene offerto a chi entra in teatro. Stesso sensazione anche quando le porte della sala si aprono e sul palco sono piazzate otto sedie rosse, quattro per parte, illuminate dalle luci di scena. Poi, le assistenti del teatro invitano noi, buona parte degli spettatori, a metterci seduti proprio lì, dentro la scena. E da dentro la scena, così viviamo iWonder.
Il suono è quello di un metronomo, per tutta la performance. Lei, Fabritia, entra con una scatola nera in mano, vestita di una gonna longuette di paillettes, zeppe alte ai piedi e un body trasparente sopra. Ci saluta, con gli occhi, ci guarda. Poi estrae un rotolo di scotch di carta e inizia a delimitare lo spazio del palco dove via via si costruiscono stanze interne definite da linee di nastro adesivo e scritte, su questo, con cui la protagonista ci indica la sua suddivisione. Linea gialla, attendere, happy hour, skipe? alcuni dei messaggi. Le due linee, una davanti ognuna delle file, descrivono una sorta di passerella, d’improvviso. Su questa Fabritia inizia a sfilare su e giù, sempre con passo diverso, sempre in sequenza nuova, sempre su quel metronomo. Quindi, via gli abiti, via le paiellettes, resta vestita di uno strato tutto nero e di spalle ad alcuni di noi sul palco, in un angolo, balla come solo per se stessa. Non ci sono connessioni con il pubblico, con lo spazio, forse nemmeno con la musica: quella è la stanza solitaria della danza, sembra. Poi, continuando, il ritmo dei passi cresce e coinvolge tutta l’area intorno agli spettatori che si voltano a guardarla. Qui, forse, il picco in alto di questo primo brano che si conclude con ironia: tolto il nero, Fabritia rimane vestita da Wonder woman, prepara un mojito, ne beve un sorso e poi fine.
Tutti fuori, con le sensazione di chi ha assistito ad un vero e proprio esperimento, e poi, di nuovo, tutti dentro.
Adesso la sala sembra molto più accogliente, persino il pubblico può mettersi seduto al suo solito posto. Entrando ci vengono lasciati dei foglietti, da compilare pare, e una matita per ciascuno.
Fabritia è seduta ad un angolo del palco e ci guarda entrare: dentro la scena, ma fuori dalla scena. Inizia così Cosamia 2.0 e mai titolo fu più azzeccato perché lo spettacolo, alla fine, non è altro che lei.
Si parte dal dubbio, quello che, come si legge nella nota esplicativa dello spettacolo, pervade ogni successo. La performance descrive dei momenti di continuità poi rotti dall’incertezza, quella dell’artista, di essere sulla strada sbagliata nel suo atto creativo. La danza smette, cambiano la musica, l’abito, l’attitudine, l’intenzione e il ritmo in aperto dialogo con il pubblico: troppo noioso, forse? Ci vorrebbe qualcosa più pop, prima, più sexy, poi, ci dice. Fino al mutare in ironia con una grande ammissione di coraggio nella performance e un delizioso siparietto con al centro uno smalto rosso fuoco. Poi, ancora, il ritorno alla danza e alle sue parti, alle sue geometrie e suggestioni, ai suoi obiettivi fino alla ricerca di un finale, quello perfetto. Serve di più, serve di meno, la diagonale poi il triangolo, Fabritia chiede aiuto al pubblico e sulla scena volano una sciarpa e poi un pacchetto di fazzoletti: tutti si fanno protagonisti del lavoro. Lo spettro del ‘già fatto’ – si legge sempre nella nota – svuota il valore delle scelte e la goffa e ossessiva ricerca di qualcosa di nuovo impedisce la soddisfazione di un’opera compiuta e fruibile. Ma non c’è negatività in questa ammissione: questo il bello e l’utile dello spettacolo. L’unica salvezza – ancora dalla nota – dal disastro sembra essere la leggerezza, la spontaneità e il confronto con il pubblico chiamato in prima persona a giocare con queste insicurezze. Così, mentre lei sola cerca il finale, tutti, matita in mano, compiliamo il foglietto che ci hanno dato all’ingresso, tenuti a dare un parere, da 1 a 5, su: voce, drammaturgia, danza, uso dello spazio, scelta della musica… ma anche mutande! Per dire che al vaglio non c’è solo il lavoro, nell’ammissione di incompletezza, non solo la tecnica e la dinamica, ma la performer stessa che si fa opera. L’artista – si legge infatti sul flyer – si domanda apertamente se quello che si suppone debba condividere è davvero il suo talento, piuttosto che le sue capacità, il suo gusto o semplicemente la sua persona.
Alla fine dello spettacolo la risposta c’è. E sembra essere si, l’artista alla fine deve condividere la sua persona. Per questo, concludendo, anche in uno spettacolo con dieci persone nel ruolo del pubblico, una sola sul palco, trenta minuti scarsi di live, tre abiti e otto sedie in tutto, l’arte c’è perché l’artista l’ha voluto. Semplicemente.
iWonder e Cosamia2.0 di Fabritia D’Intino | Recensione
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