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“Perchè c’è sempre una parte da recitare…”
“La vita imita l’arte più di quanto l’arte non imiti la vita” – Oscar Wilde
Parole di Oscar Wilde, pensieri di molti. Condivisi da chi vive la vita senza uno schema, se non quello di crearne uno. Rodolfo Mantovani è un emergente attore bastiolo, salito alle luci della ribalta dopo aver interpretato vari ruoli nel mondo del cinema, televisione e teatro. Lo scorso anno l’abbiamo visto nella veste di Primo Rivalta nella fiction “La figlia di Elisa, il ritorno a Rivombrosa”, regia di Stefano Alleva. Dopo aver interpretato innumerevoli ruoli nel panorama teatrale, ed aver creato un’associazione culturale proprio insieme ad Alleva, il giovane bastiolo si è messo in evidenza anche da poco, quando è comparso nelle sale dei cinema italiani recitando la veste di un soldato lodigiano nel film “Barbarossa” di Renzo Martinelli. Prima di curiosare dentro la sua affascinante storia, abbiamo fatto un passo indietro e calcato sensibilmente il percorso del passato.
Rodolfo, quando è nata la tua passione per la recitazione? «Il mio viaggio in questo fantastico mondo è cominciato molti anni fa a Bastia Umbra, quando ho cominciato ad interpretare vari ruoli nelle sfilate del Palio de San Michele. La festa del mio patrono, oltre a vari riconoscimenti personali, mi ha reso consapevole delle mie capacità artistiche, convincendomi sulla strada da perseguire. Il primo passo verso la recitazione però l’ho fatto al C.U.T. (Centro Universitario Teatrale) di Perugia dove ho avuto la fortuna di incontrare insegnanti meravigliosi. Lì ho capito davvero cosa fosse il teatro e dopo aver vinto il concorso (c’era un numero chiuso di iscritti), ho fatto la scuola e mi sono diplomato attore».
Come sei approdato al cast di Rivombrosa? «Grazie al Rione San Rocco… (ride, ndr). Nel 2005 infatti, vinsi il premio come miglior attore e in giuria c’era un certo Stefano Alleva, regista della fiction. Insieme all’aiuto regista Cristina Bravini e al gruppo “Trep”, formato da me, Roberto Costantini (regista) e Fabio Mercanti (direttore della fotografia), ho realizzato diversi cortometraggi, fondamentali per partecipare ai provini del cast. Quando Stefano ha visto il provino si è subito ricordato della mia interpretazione a Bastia ed ha deciso di darmi fiducia».
Parlaci di quest’avventura… «È stata un’esperienza meravigliosa, arrivata nel momento giusto della mia carriera. Sono stato subito a mio agio nei panni del personaggio che ho interpretato (Primo Rivalta, ndr), ma non è stato affatto facile. La mia preparazione al Cut è stata determinante; se non fosse stato per l’ottimo lavoro svolto da Roberto Ruggeri nel selezionare gli insegnanti dell’Accademia, non credo che avrei avuto la possibilità di confrontarmi con professionisti di questo livello. Penso a Manlio Rocchetti, genio del trucco, vincitore del premio Oscar con “A spasso con Daisy”, ma è soltanto un piccolo esempio. Per quello che riguarda l’esperienza del set ci sarebbe da parlarne per ore. Considerando che nel cinema si lavora tutto il giorno per girare scena da 3 minuti, ci sono stati momenti in cui abbiamo girato 10 minuti di fiction, equivalenti a 14 ore lavorative. Poi, data la mia esperienza di Comandante nella Folgore, sono stato invitato da Stefano Alleva a coadiuvarlo nelle scene militari. Una soddisfazione indescrivibile che ha lasciato la scia».
…La scia che porta al nome di Harvey? «Sì, in seguito al lavoro fatto su Rivombrosa il rapporto fra me e Stefano si è molto consolidato ed insieme abbiamo fondato l’associazione culturale Harvey. Quest’anno abbiamo partecipato al Festival di Spoleto con “In alto mare”, uno spettacolo teatrale realizzato alle fonti del Clitunno. Il successo è stato strepitoso! Considerando che l’abbiamo replicato per tre sere consecutive…»
Alla faccia di chi diceva che il Festival di Spoleto era in declino! «Esatto. Lo stesso Ferrara, direttore artistico del Festival, ha sottolineato la qualità del nostro spettacolo ed ha abbracciato le tematiche affrontate, rilanciando la figura del teatro nell’attualità».
Quali sono i prossimi progetti dell’associazione culturale? «Nei prossimi giorni, sempre a Spoleto, faremo un nuovo spettacolo: intitolato “Tempo di scirocco”. La trama narra della storia di Ernesto Ragazzoni, un artista italiano del ‘900. Questo autore è molto interessante sotto tutti i punti di vista, perché ha saputo interpretare i paradossi della vita in maniera molto profonda. Diciamo pure che viveva la vita in modo disincantato, insegnando a non prendersi troppo sul serio. Era uno scrittore, un giornalista e un poeta. Tra i suoi articoli ce n’è uno che tratta dell’anima moderna, scritto nel 1898. Praticamente parla di quello che stiamo vivendo adesso: incredibile…»
A proposito di scrittori, libri e… biblioteche! Se non ricordo male, sei stato protagonista di un bello spot… «Esatto, ma tu sai tutto (ride, ndr). A gennaio, insieme a Fabio Mercanti e Giacomo Caldarelli, ho vinto un concorso nazionale su uno spot che aveva come tema “la biblioteca”. Il nostro cortometraggio ha rappresentato l’Italia nel mondo».
Qual è stato il vostro messaggio di comunicazione? «Semplice. Quando si va in biblioteca non si incontra solo un libro, ma un’infinità di personaggi. Il nostro soggetto è entrato parlando con Amleto ed è uscito sottobraccio a Cappuccetto Rosso. Quest’idea è venuta a me pensando al teatro… Quando riconsegniamo un libro è come se restituiamo un personaggio».
Bell’idea, complimenti… Tornando al cinema, come sei approdato a calcare il set di Barbarossa? «Ho incontrato Renzo Martinelli in Romania quando il cast era già al completo, poi però si è creata una bella opportunità ed ho deciso di approfittarne. Abbiamo girato a Bucarest, negli studios dove gira anche Hollywood. Il cast era internazionale ed abbiamo dovuto recitare in lingua inglese…»
Invidiabile… «Diciamo che è molto importante fare esperienze diverse, ma lo è soltanto se hai la coscienza di ciò che stai facendo. Come in tutti i lavori, non bisogna mai fermarsi all’effimero delle cose. Anche perché, non viene detto spesso, ma il nostro mestiere è di estremo rigore. Se si vanno a vedere le biografie dei più grandi attori, si percepisce un comportamento stile “militare”. Non è mai capitato che i grandi risultati siano stati frutto di un estemporaneità. Le più grandi leggende del cinema e del teatro hanno avuto un approccio talmente estremo al mestiere da risultare quasi maniacale. È molto importante questa premessa, perché altrimenti sembra che tutti possono far tutto. Non è così … e non deve esserlo!»
Sentendoti parlare sembra come se tu voglia staccarti dal ruolo dell’attore stesso… «Certo, ritengo sia formativo. Al CUT mi hanno insegnato ad accordarmi come fossi uno strumento musicale, a prescindere da chi c’è davanti. Il nostro è un mestiere molto psicologico e ci obbliga ad una autoanalisi costante. Perché se hai la presunzione di interpretare bene qualcuno che non sei tu, devi avere per lo meno la conoscenza di chi sei. È un gioco a far finta di… E se tu parti dal presupposto che non ti conosci, camminerai e parlerai sempre allo stesso modo e non vedrai mai l’Otello di Rodolfo Mantovani, ma Rodolfo Mantovani che ha fatto Otello. Quando l’attore sta davanti al personaggio, perde, scompare…»
Che tipo di rapporto hai con te stesso? «Come tutti gli attori sono presuntuoso nel momento in cui ritengo che una mia interpretazione sia credibile. Da poco mi è capitato che recitando mascherato Balanzone in “Arlecchino” al Teatro Sistina di Roma, qualcuno mi abbia scambiato per un cinquantenne bolognese. Se non fosse stato per un amico in comune che ci presentava, non mi avrebbe mai riconosciuto. Per il resto, con me stesso sono ipercritico; soltanto quando ho percezioni concrete capisco di essere nella direzione giusta».
Il teatro e il cinema sono lo specchio di una società passata e presente. A volte in una trama si incontrano storie che ritroveremo anche in futuro, come credi sia possibile? «Il nostro lavoro è antropologico dove abbiamo un costante confronto diretto. Credo che in ogni ambiente si dovrebbe fare un lavoro corale analogo al nostro, perché la forza del gruppo, mio padre me l’ha sempre detto, ha una resa sempre diversa rispetto a quella del singolo. Se tu sei una persona di riferimento nella società avrai sempre delle persone che ti staranno attorno. Io ho un mio pensiero in merito…»
Prego… «Tutti servono se c’è chi è indispensabile. Se mancano gli indispensabili non serve nessuno. Molto spesso sono le cose concrete che parlano per noi…»
Qual è il potenziale di Rodolfo Mantovani? «Molto alto. Ora sto lavorando in ambienti importanti, ma non sono ancora al top. L’ascesa ai piani più alti in minima percentuale dipende da me, poi è spiacevole dirlo ma, come in ogni settore del lavoro, non basta recitare bene. L’Italia è piena di talenti. Ci sono bravissimi attori e bravissimi registi. Il fatto che non si vedano né al cinema né al teatro che conta, dipende esclusivamente da una rete di conoscenze e di rapporti… Credo nel lavoro e nella meritocrazia e non mi sento presuntuoso se ti dico che un giorno vedrei bene un film di Hollywood nella mia carriera. Ho avuto modo di lavorare con registi italiani e stranieri e tutti mi hanno dato una risposta confortante; sia per la dedizione personale al lavoro che per predisposizione artistica. Attualmente non credo di essere tanto bravo, per quello che mi riguarda mi ritengo un onesto lavoratore. Però, vedendo quello che esiste, non penso più al potenziale, ma al reale. E quando assisto ad un film al cinema o a interpretazioni teatrale, sono sempre meno le volte che mi sento al di sotto di quello che vedo».
Hollywood: ora prenderanno per matto me che l’ho scritto e tu che l’hai detto… «Ci si può arrivare e la cosa è più facile di quello che si pensa. Molto spesso però dipende dalla fortuna o da incontri che si possono fare lavorando o non… Sono situazioni dove può accadere tutto o niente, come il destino. Di fatto c’è che in pochi, una volta intrapresa questa strada, pensavano che io arrivassi in tv a fare fiction. Diciamo che ho le prove nel dire che immaginare e credere siano due facce della stessa medaglia».
Dove ti vedi da qui a 20 anni? «Sicuramente con un piede a Bastia. Poi mi vedo con una carriera ormai consolidata alle spalle. Questa è una speranza che in certi momenti diventa convinzione. C’è una frase di Calderòn de la Barca (autore teatrale spagnolo) che dice: “Che è mai la vita? Un’illusione, un’ombra, una finzione… E il più grande dei beni è poi ben poca cosa, perché tutta la vita è sogno, e gli stessi sogni son sogni!”. Se si perde la capacità di sognare…»
La realtà: qual è il tuo programma tv preferito? «Passpartout di Philippe Daverio su RAI TRE. Perché è un programma che affronta l’arte in maniera tematica. Mi piace come lui presenta la cosa, in maniera molto chiara, indicativa, interessante».
Secondo il tuo parere qual è attualmente il miglior attore italiano? “Ce ne sono tantissimi… Diciamo che metterei la mano sul fuoco per avere un giorno la qualità di Giancarlo Giannini, Renato Carpentieri e Franco Branciaroli. Quest’ultimi lavorano soprattutto a teatro: sono dei mostri sacri!»
L’attrice? «Spezzo una lancia a favore di quelle con cui ho avuto il piacere di lavorare. Una davvero brava è Sara Armentano, bastiola anche lei, poi un’altra è Ewa Spaldo, moglie di Stefano Alleva».
Cosa pensi di Facebook? «Se viene sfruttato in maniera intelligente è una cosa utilissima. Io lo uso abbastanza. Diciamo che è uno dei pochi modi che ho per informare i miei “amici” sui miei prossimi appuntamenti».
Concludendo, mi devi improvvisare una risposta ad una domanda che non ti ho mai fatto… «Alla Marzullo… (ride, ndr). Sicuramente rifarei tutto quello che ho fatto fino ad ora, e se potessi, cercherei di essere il più rigoroso possibile con me stesso. Una delle cose che mi ha aiutato di più nella vita è stato lo sport. L’atletica e le arti marziali mi hanno reso una persona più duttile e mi hanno aiutato nell’affrontare certe occasioni. Non rinnego nulla, magari certe scelte le avrei fatte senza aspettare… Ma è troppo facile dirlo adesso».
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